IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Emette la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza relativo alla concessione di differimento della pena all'udienza del 22 dicembre 1992, premesso che il detenuto Bruschi Valentino, nato il 4 dicembre 1962 a Cisliano (Milano), attualmente c/o comunita' "Saman" ospitale di Bondeno in espiazione pene anni 3, mesi 8 recl. sent. 29 maggio 1991 (Ferrara), Via S. Biagio n. 82 corte app. Torino, anni 1 recl. sent. 29 maggio 1991 corte app. Torino difeso dall'avv. di uff. Rossi E. del Foro di Torino. Visto il parere contrario del p.g.; Visti gli atti del procedimento di sorveglianza sopra specificato; Verificata, preliminarmente, la regolarita' delle comunicazioni relative al prescritti avvisi al rappresentante del p.m., all'interessato ed al difensore; Considerate le risultanze delle documentazioni acquisite, delle investigazioni e degli accertamenti svolti, della trattazione e della discussione di cui al separato processo verbale; SVOLGIMENTO DEL PROCESSO In data 19 settembre 1992 Valentino Bruschi, sopra generalizzato, ha indirizzato al magistrato di sorveglianza di Vercelli una richiesta di differimento pena in base al d.l. n. 374 dell'11 settembre 1992. I documeti allegati alla domanda sono: a) la certificazione di A.I.D.S. conclamata rilasciata dall'ospedale S. Andrea di Vercelli a firma del primario del reparto malattie infettive; b) una dichiarazione di dimissione del Bruschi dall'Ospedale S. Anna di Ferrara del 18 settembre 1992. Il magistrato di sorveglianza di Vercelli con decreto 25 settembre 1992 ha sospeso ai sensi dell'art. 4 del citato d.l. e 684 c.p.p. l'esecuzione della sentenza di condanna 29 maggio 1991 della corte di appello di Torino ad anni 3 e mesi 8 di reclusione e della sentenza corte appello Torino 29 maggio 1991 ad anni 1 di reclusione ed ha trasmesso gli atti al tribunale di sorveglianza di Torino. Al termine dell'odierna udienza, svoltasi in assenza di Bruschi Valentino, sentiti il difensore ed il procuratore generale il collegio ha sollevato d'ufficio l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 146 c.p. cosi' come modificato dall'art. 4 d.l. 12 novembre 1992 n. 431. D I R I T T O Per illustrare in modo adeguato l'eccezione di incostituzionalita' della citata norma e' indispensabile puntualizzare alcuni principi di ordine costituzionale in tema di obbligatorieta' dell'esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva. In ogni ordinamento giuridico e' riconosciuto allo Stato la potesta' di esigere la sottoposizione all'esecuzione delle condanne a pena detentiva di tutti coloro dei quali sia stata accertata la colpevolezza nei modi e nei termini stabiliti dalla legge. L'art. 3 della Costituzione e l'art. 3 del c.p. sono espressione di siffatto principio. Pertanto sussiste l'obbligo per tutte le persone condannate a pena detentiva di subire la pena. L'adempimento di questa obbligazione non ammette di regola eccezioni. Le deroghe a questo dovere sono legislativamente previste negli artt. 146, 147, 148, 163, 171, 174, 222 secondo capoverso del codice penale. Limitando la nostra indagine all'esame degli artt. 146 e 147 del c.p. si rileva che il legislatore nell'anno 1930, ovverosia prima dell'introduzione degli artt. 27 e 32 della Costituzione, (art. 27: le pene non possono consistere in un trattamento contrario al senso di umanita'; art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettivita'), ha previsto una normativa in cui sono garantiti i diritti teste' espressi alle persone condannate a pena detentive prima dell'esecuzione della pena ovvero nel corso della carcerazione. Il rinvio e' obbligatorio o facoltativo. Il rinvio e' previsto in modo obbligatorio (art. 146 del c.p.) a) se deve essere eseguito contro una donna incinta; b) se deve essere eseguita contro una donna che abbia partorito da meno di sei mesi. La finalita' di questo eccezionale istituto e' palese: il legislatore ritiene che sia contario al senso di umanita' consentire che una donna incinta partorisca in carcere ovvero che stia in carcere con un neonato di pochi mesi. L'eccezionalita' dei due eventi impone il sacrificio del diritto dello Stato a dare esecuzione alla pena detentiva nei confronti di una donna che trovasi nelle condizioni dianzi descritte. Questa deroga e' accettabile anche sotto un altro profilo: la rinuncia all'esercizio di detta potesta' ha una durata limitata nel tempo. In tale ipotesi l'organo preposto alla decisione e' obbligato ope legis a concedere il beneficio richiesto acquisendo la certificazione sanitaria comprovante le condizioni previste dall'art. 146 del c.p. Il rinvio dell'esecuzione della pena e' facoltativo nei seguenti casi: "L'esecuzione della pena puo' essere differita (art. 147 c.p.): 1) se e' presentata domanda di grazia (174) e l'esecuzione della pena non deve essere differita a norma dell'articolo precedente; 2) se una pena restrittiva della liberta' personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermita' fisica; 3) se una pena restrittiva della liberta' personale deve essere eseguita contro donna, che ha partorito da piu' di sei mesi ma da meno di un anno, e non vi e' modo di affidare il figlio ad altri che alla madre". La differenza essenziale fra le due ipotesi di rinvio della pena e' rappresentata dal ruolo svolto dall'organo preposto a decidere sulle istanze. Prima di illustrare questo dato saliente e' opportuno ricordare che, ai sensi dell'art. 589 del c.p.p. (codice abrogato) gli organi delegati alla decisione erano il pretore ed il p.m. competente, ed il Ministro di grazia e giustizia "quando l'ordine di carcerazione era gia' stato eseguito" (norma questa ultima dichiarata incostituzionale nell'anno 1979). L'art. 22 della legge n. 663/1986 ha radicalmente modificato la competenza in ordine agli organi decisionali. Invero con tale norma e' stato stabilito che: "in ciascun distretto di corte di appello e in ciascuna circoscrizione territoriale di sezione distaccata di corte di appello e' costituito un tribunale di sorveglianza competente per l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semiliberta', la liberazione condizionale (176 del c.p.), la riduzione di pena per la liberazione anticipata, la revoca o cessazione dei suddetti benefici, il rinvio obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione delle pene detentive ai sensi degli artt. 146 e 147, nn. 2 e 3, del codice penale, nonche' per ogni altro provvedimento ad esso attribuito dalla legge". Questa normativa e' stata recepita anche nell'art. 684 del nuovo codice di procedura penale. "Il tribunale di sorveglianza (677) provvede in ordine al differimento dell'esecuzione delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della liberta' controllata nei casi previsti dagli artt. 146 e 147 del codice penale, salvo quello previsto dall'art. 147 primo comma, del codice penale, nel quale provvede il Ministro di grazia e giustizia. Il tribunale ordina, quando occorre, la liberazione del detenuto e adotta gli altri provvedimenti conseguenti". Questa nuova disciplina, che ha individuato nel tribunale di sorveglianza l'organo legittimato ad emettere la decisione nei casi previsti dagli artt. 146 e 147 del c.p. ha evidenti riflessi in ordine alla natura del provvedimento conclusivo del procedimento relativo. Invero, sul piano formale e sostanziale, e' stata estesa anche alla materia di cui alla citata norma la competenza giurisdizionale del tribunale di sorveglianza che era stata introdotta per le misure alternative dalla legge n. 354/1975. Infatti il tribunale di sorveglianza, composto da due giudici ordinari e da due esperti, risolve imparzialmente il conflitto tra il potere dello Stato di esigere che la sentenza di condanna e pena detentiva sia eseguita o continui ad essere eseguita, ed il diritto del condannato a chiedere che la sentenza di condanna a pena detentiva non sia eseguita o sia sospesa nelle ipotesi previste negli artt. 146 e 147 del c.p. La procedura prevista per la definizione di questo giudizio e' disciplinata dagli artt. 666, 678 del c.p.p. All'interno di questa unica funzione giurisdizionale del tribunale di sorveglianza si devono pero' distinguere le ipotesi di cui all'art. 146 del c.p. rispetto a quelle di cui all'art. 147 del c.p. Invero, cosi' come e' stato evidenziato sopra, nella trattazione delle ipotesi disciplinate nell'art. 146 del c.p. il tribunale svolge un ruolo notarile in quanto il legislatore ha inteso impedire in modo assoluto, per le predette persone condannate, il loro ingresso in carcere: l'organo giudicante si limita quindi a verificare se sussistano le condizioni oggettive sopra descritte sulla base di una certificazione sanitaria pubblica ed in caso di riscontro positivo concede il rinvio dell'esecuzione delle pene. Questa notevole limitazione al potere giurisdizionale dell'organo giudicante, derogatorio rispetto ai principi generali di cui agli art. 3 e 111 della Costituzione, e' ampiamente giustificato dalle ragioni dianze espresse. Nell'ambito delle ipotesi di cui all'art. 147 del c.p. ed in particolare per quella di cui al n. 2 il procedimento giurisdizionale si sviluppa, sia nella fase istruttoria, sia in quella decisione, senza limitazione di sorta e nel pieno rispetto degli artt. 111, 27, 32 e 3 della Costituzione. Nell'esercizio di questa funzione giurisdizionale i tribunali di sorveglianza e la Corte di cassazione sezione I hanno elaborato una giurisprudenza in ordine all'interpretazione dell'art. 147 n. 2 del c.p. i cui cardini sono espressi dalle seguenti sentenze della Corte di cassazione. Sentenza sez. I 7 maggio 1991 n. 213 (Reina): " ..che ai sensi del citato art. 147, n. 2 del c.p., l'esecuzione della pena puo' essere sospesa se deve essere eseguita nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermita' fisica; che per individuare i presupposti in presenza dei quali e' legittimo un rinvio dell'esecuzione della pena e' d'uopo aver riguardo a tre principi desumibili dalla Costituzione: il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge senza distinzione di condizioni personali (art. 3), nonche' quelli secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita' (art. 27) e la salute e' un diritto fondamentale dell'individuo (art. 32); che da tali principi e' agevole desumere: a) che le pene inflitte dai competenti organi giurisdizionali debbono essere eseguite nei confronti di coloro che le hanno riportate; b) che tale esecuzione non e' preclusa da eventuali stati patologici del soggetto suscettibili di generico miglioramento o di una piu' adeguata cura a seguito del ritorno alla liberta', non esistendo malato al quale la cessazione della detenzione non arrechi giovamento, quando meno sotto il profilo psicologico; c) che in tanto uno stato morboso del condannato legittima la sospensione dell'esecuzione in quanto la prognosi sia infausta quoad vitam, ovvero il soggetto possa giovarsi, in liberta', di cure e trattamenti indispensabili non praticabili in stato di detenzione, neppure mediante ricovero in ospedale civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'art. II comma secondo legge 26 luglio 1975 numero 354, ovvero, ancora, a cagione della gravita' delle condizioni, l'espiazione della pena si appalesi in contrasto con il senso di umanita' del quale si e' detto; che i giudici di merito hanno escluso che ricorra nella specie alcuna delle situazioni teste' enunciate; che, invero, detti giudici, con una motivazione immune da vizi logico-giuridici, sulla scorta della documentazione medico acquisita anche mediante un'indagine peritale, hanno ritenuto che le partologie dalle quali il ricorrente e' affetto non si manifestano, allo stato, con sintomatologie denotanti una particolare gravita' e non trasformano la pena in un trattamento contrario al senso di umanita'; che la terapia prescritta dai medici al Reina, consiste in un trattamento farmacologico per via orale, puo' essere adeguatamente praticata permanendo l'attuale status detentionis; che, l'irreversibilita' dell'infezione contratta (sieropositivita' "da HIV, non ancora evoluta in AIDS vero e proprio) non comporta, ipso iure, il differimento dell'esecuzione della pena se non quando la stessa si manifesti con una patologia a prognosi infausta ravvicinata, ovvero le condizioni di salute siano tali da rendere la protrazione della detenzione in contrasto con il senso di umanita' e, quindi, con la Carta fondamentale dello Stato (v. art. 27 comma III Cost.)". Sentenza sez. I 31 ottobre 1990 - Pennone: "Enrico Pennone ricorre per Cassazione avverso l'ordinanza 6 aprile 1990, con la quale il tribunale di sorveglianza di Torino ha rigettato la richiesta di differimento dell'esecuzione della pena ex art. 1472 del c.p. Il ricorso non puo' essere accolto in quanto il provvedimento impugnato risulta immune da denunciati vizi di violazione di legge e mancanza di motivazione. Esso, per vero, e' sorretto da adeguata e congrua motivazione che trova puntuale riferimento sulla documentazione sanitaria in atti volta a dare certezza che, allo stato, pur in presenza di AIDS, non sussistono a carico dell'interessato patologie determinanti pericolo di morte imminente e percio' tali da giustificare l'applicazione dell'eccezionale istituto di cui alla norma. D'altro canto, il protocollo terapeutico, stabilito da medici per il Pennone, di natura completamente farmacologica, ben puo' essere praticato perdurando l'attuale stato di detenzione, salvi gli eventuali ricoveri ospedalieri. Vi e' da rilevare infine che, l'irreversibilita' dell'infezione suddetta non comporta ipso-iure, il differimento dell'esecuzione della pena se non quando dia luogo ad una patologia di prognosi infausta ravvicinata, ovvero quando le condizioni di salute del condannato siano divenute cosi' gravi, da rendere la protrazione della detenzione in contrasto con il senso di umanita' e percio' con l'articolo 27 terzo comma della Costituzione. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente alle spese processuali. Per questi motivi la Corte di cassazione, visti gli artt. 611 e 616 del c.p.p. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di procedimento. Roma li' 31 ottobre 1990". Ai fini di un maggiore approfondimento del problema e' indispensabile richiamare il contenuto della relazione medico legale affidato al primario dell'ospedale delle malattie infettive di Torino "Amedeo di Savoia" e sulla cui base il tribunale di sorveglianza aveva deciso sull'istanza del detenuto Pennone di cui alla citata sentenza 31 ottobre 1990 della Cassazione: "Giudizio clinico conclusivo soggetto cui e' stata posta diagnosi di AIDS conclamata, al momento senza infezioni opportunistiche in atto. La sieropositivita' per l'HIV-AG, il valore della betaduemicroglobulina e il decremento dei linfociti T4 rendono necessaria una regolare monitorizzazione delle condizioni cliniche e dei parametri bioumorali per cogliere l'eventuale comparsa di infezioni opportunistiche o, comunque, l'aggravarsi dell'insufficienza immunitaria. Risposte ai quesiti: a) Condizioni generali e cliniche sufficienti, non segni obiettivabili in infezioni opportunistiche in atto. b) - Il paziente e' affetto da AIDS conclamata in quanto nel gennaio scorso ha superato esofagite da candida peraltro guarita con la corretta terapia somministratagli, come dimostra il referto del controllo esofagoscopico eseguito il 26 gennaio 1991. c) - L'infermita' (l'AIDS) e' grave e determina, nel tempo, pericolo di morte. d) - La malattia (l'AIDS) e' infermita' grave a carattere irreversibile, allo stato attuale delle conoscenze, la cui durata e' pero' difficile da prevedere, essendo strettamente correlata con il tipo di infezione opportunistica che ne ha caratterizzato l'insorgenza e l'evoluzione. e) - L'infezione opportunistica (la candidosi espfagea) e' attualmente in fase di quiescenza un'eventuale riattivazione della medesima potrebbe comunque essere trattata presso il centro clinico della casa circondariale a patto, ovviamente che il paziente accetti le visite mediche e la terapia prescrittagli. f) - Attualmente la situazione clinica e' compatibile con lo stato di carcerazione anche se e' necessario continuare a controllare i parametri immunologici del paziente che risulta essere positivo per l'antigene HIV ed avere avuto, negli ultimi mesi un decremento significativo dei linfociti T4. g) - Buona parte degli esami di controllo per il monitoraggio dell'evoluzione dell'infezione e della risposta al trattamento dell'infezione possono essere eseguiti presso il laboratorio della casa circondariale. Per quelli da inviare all'ospedale Amedeo di Savoia, (distante circa 2 chilometri) i tempi sono quelli tecnici, vale a dire qualche ora in piu' rispetto all'attesa delle risposte per i pazienti ricoverati: la differenza essendo costituita dal tempo impiegato nel trasporto dei prelievi e nel ritiro dei rispettivi referti. h) - Ritengo che la formulazione dell'ultimo quesito sia insufficientemente precisa e, soprattutto, che non possa comportare una risposta univoca. Le circolari ministeriali inoltre, a quanto mi risulta, non sono leggi, e qualora fossero da considerare tali esse renderebbero superflui gli accertamenti peritali. La diagnosi di AIDS si pone in seguito alla comparsa delle infezioni opportunistiche le quali non sono sempre caratterizzate dalla stessa gravita' e soprattutto dalla stessa prognosi nel tempo. Secondo la nostra esperienza, ad esempio, le forme che si manifestano con un'esofagite da candida hanno una sopravvivenza di almeno tre anni e, inoltre, non e' per solito l'esofagite a determinare l'exitus del paziente ma bensi' un'altra infezione piu' grave e ad evoluzione piu' drammatica che vi si sovrappone. In sintesi, un comune cittadino nelle condizioni del periziato non verrebbe trattenuto in ospedale ma ritornerebbe in famiglia e curato a domicilio. La stessa cosa non accadrebbe invece in caso di polmonite da pneumocisti in fase acuta o di neurotoxoplasmosi o di meningite da criptococco. Non e' quindi possibile, a mio avviso, emettere un giudizio di carattere formale circa la compatibilita' o meno con la vita carceraria dei soggetti. Gli ampi stralci della decisione della Corte di cassazione ed i passi significativi della relazione medico-legale teste' citata documentano quindi in modo rigoroso che: a) il tribunale di sorveglianza non esamina in astratto la compatibilita' tra una malattia grave, irreversibile ed ingravescente e lo stato detentivo, ma valuta in concreto se il quadro clinico di un detenuto affetto da malattia grave ed irreversibile sia tale da determinare l'incompatibilita' del suo stato di malato grave con la prosecuzione della detenzione. Nell'esercizio ai sensi dell'art. 111 della Costituzione di questa funzione giurisdizionale il collegio, di cui fanno parte un esperto in medicina ed un esperto in psichiatria, procede ad una puntuale applicazione dei principi fissati in modo costante dalla Corte di cassazione e teste' riferiti. b) In tale contesto trovano puntuale applicazione per tutti i detenuti affetti da malattia grave: 1) Il principio di cui all'art. 27 della Costituzione: infatti laddove il tribunale rileva che la espiazione della pena si appalesa per quel soggetto contrario con il senso di umanita', ordina la sospensione della pena. 2) Il principio di cui all'art. 32 della Costituzione: infatti esaminando la singola domanda di un detenuto affetto da malattia grave, il tribunale qualora accerti in concreto che la cura di tale malattia non e' praticabile in un determinato istituto penitenziario, ordina il differimento della pena fissandone caso per caso il periodo. 3) Il principio di cui all'art. 3 della Costituzione: invero tutti coloro che sono affetti da malattia grave irreversibile, ingravescente e abbisognevole di particolari cure farmacologiche sono assoggettate alla stessa disciplina senza alcuna distinzione. Pertanto dall'entrata in vigore del citato art. 22 della legge n. 663/1986 ogni tribunale di sorveglianza ha provveduto a concedere la sospensione della pena anche agli ammalati di AIDS conclamata o con grado di deficienza immunitaria grave, purche' fossero state accertate le condizioni stabilite nella citata sentenza della Cassazione. 4) Tutti i provvedimenti del tribunale, positivi o negativi sono fondati su una ampia documentazione sanitaria e talvolta su perizie medico-legali disposte nei casi piu' complessi. Conclusivamente sul punto si puo' affermare che grazie a questa normativa, peraltro coerente con le citate disposizioni della Carta costituzionae, il problema dei detenuti e dei condannati liberi, colpiti da grave forme di malattia incompatibile con la detenzione e' disciplinato in modo unitario e congruo. Inoltre il sistema ha approntato un altro strumento, la detenzione domiciliare (art. 47- ter ordinamento penitenziario), grazie al quale i detenuti gravemente ammalati, la cui pena residua e' inferiore o pari ad anni 2, possono espiare la pena nelle proprie abitazioni o in altri luoghi opportunamente predisposti per le cure mediche e farmacologiche. Citiamo un dato statistico significativo che conferma la validita' degli strumenti normativi teste' illustrati: nell'anno 1991 i tribunali di sorveglianza hanno concesso n. 511 rinvii della pena detentiva ex art. 146 e 147 c.p.; e n. 346 detenzioni domiciliari ex art. 47- ter O.P. Questi dati sono stati pubblicati nel bollettino n. 1 di informazione della magistratura di sorveglianza del Consiglio superiore della magistratura. E' superfluo evidenziare che una parte cospicua di detti provvedimenti riguardano condannati, detenuti o liberi, affetti da AIDS conclamata o con deficienza immunitaria grave. Si puo' pertanto affermare che, in tema di tutela della salute dei detenuti gravemente ammalati, la legislazione vigente, con il supporto determinante dell'amministrazione penitenziaria, della magistratura di sorveglianza e della Corte di cassazione, pone il nostro Stato in una posizione di avanguardia nel contesto delle Nazioni. Nonostante cio', e' stata introdotta, in modo inopinato e senza alcun dibattito culturale e scientifico, una disciplina autonoma e differenziata in tema di differimento della pena per le persone detenute o condannate, a pena detentiva, ma libere, affette da AIDS conclamata o con deficit immunitario grave, stabilendone ope legis l'incompatibilita' assoluta con lo stato detentivo con le seguenti disposizioni. "Art. 4 d.l. 12 novembre 1992: nel primo comma dell'art. 146 del c.p. e' aggiunto il seguente numero: (3) se deve aver luogo nei confronti di persona affetta da infezione da HIV nei casi di incompatibilita' con lo stato di detenzione ai sensi dell'art. 286-bis, comma primo del codice di procedura penale". Art. 3 d.l. 12 novembre 1992: "L'incompatibilita' sussiste, ed e' dichiarata dal giudice, nei casi di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria. Il primo sentimento che si prova a leggere questa disposizione e' quello di stupore. Invero la stessa commissione nazionale per la lotta all'AIDS, ha recentemente affermato: "che il quadro clinico delle infezioni da HIV e' caratterizzato da una estrema dinamicita' e varieta' di situazioni per cui possono verificarsi casi di paziente affetti dalla infezione HIV in uno stadio epidemiologicamente non classificabile con AIDS (soggetti classificati come 4 A, 4 C2, 4 E), che pure versano in condizioni clinicamente gravi e che necessitano di quegli stessi inderogabili provvedimenti sanitari (controlli, ricoveri, terapie) che sono stati previsti per i soggetti in fase AIDS. La stessa Commissione ha, altresi', precisato che le suddette indicazioni debbano rappresentare un contributo nel difficile compito di valutare, nei singoli casi, la sussistenza delle condizioni che consentono il permanere del soggetto in ambiente carcerario o che ne consigliano il trasferimento nel domicilio o in struttura esterna". "Circolare n. 3320/5770 del 20 luglio 1991 del direttore generale del D.A.P.". Sottolineiamo che la predetta commissione nel citato documento ha evidenziato "il difficile compito di valutare, nei singoli casi, la sussistenza delle condizioni che consentono il permanere del soggetto in ambiente carcerario. Di fronte a questo esplicito riconoscimento della difficolta' di valutare caso per caso la incompatibilita' fra stato detentivo e la malattia, lo stupore, dianzi espresso, assume la connotazione dello sbigottimento nel constatare che e' stato introdotto per legge un principio assoluto di incompatibilita' tra la malattia dell'AIDS ed il carcere, scientificamente errato e giuridicamente contrastante con i principi fissati negli artt. 2, 3, 27, 32 e 111 della Costituzione. Invero la valutazione delle condizioni di un malato di AIDS non puo' discendere da una semplice conta dei linfociti CD4 (=T4), che pur essendo un'espressione del deterioramento dello stato immunitario, quindi di una situazione di rischio, non ha di per se' significato di AIDS in fase grave. La gravita' della malattia e' invece espressa, oltre che dal numero dei T4, dal tipo di infezione opportunistica e soprattutto dalla localizzazione d'organo dell'infezione stessa. Va da se' che una polmonite interstiziale da Pneumocystis carinii o da Cytome galovirus, con una grave compromissione della funzione respiratoria, o una lesione neurologica da Toxiplasma gondii, o una encefalite da Cytomegalovirus o da virus erpetico, a parita' di numero di T4, sono ben piu' gravi di una esofagite da Candida albicans che offre, tra l'altro, buone prospettive di remissione. E' insomma difficile stabilire a priori, su basi teoriche, la gravita' di un quadro clinico di un ammalato di AIDS e conseguentemente e' assurdo definire a priori la sua incompatibilita' con lo stato detentivo. Le affermazioni teste' espresse sono comprovate da una vicenda giudiziaria che e' stata esaminata dal tribunale di sorveglianza di Torino. I medici dell'ospedale "Amedeo di Savoia" di Torino il 25 febbraio 1986 avevano diagnosticato al detenuto A.C. la malattia di AIDS conclamata in seguito ad un ricovero per una candidosi esofagea che dopo la cura e' andata in remissione. Nel corso di circa 7 anni vi sono stati episodi di recidiva della stessa malattia che si sono risolti con esito positivo. Attualmente persiste per A.C. la diagnosi di AIDS conclamata in assenza di malattie opportunistiche, con un deficit immunitario esplicitato da un numero di linfociti T/CDA + pari a 463 per mmc. Il tribunale di sorveglianza di Torino, con decisione delli 28 giugno 1991 aveva gia' respinto la richiesta formulata da A.C. ai sensi dell'art. 147 n. 2 del c.p. La Corte di cassazione sez. I con sentenza n. 4946 delli 17 dicembre 1991 aveva respinto il ricorso con la seguente motivazione: " a) l'infermita' del condannato, pur essendo grave ed irreversibile, in assenza di malattia opportunistica non e' compatibile con lo stato detentivo anche a causa della fase di quiescenza dell'AIDS; b) la terapia in atto e' stata magistralmente condotta". Orbene con l'innovazione normativa teste' esposta, A.C. documentando la diagnosi di candidosi esofagea del 26 febbraio 1986 ha ottenuto dal magistrato di sorveglianza il 25 ottobre 1992 la sospensione dell'esecuzione della pena ex art. 684 del c.p.p. La situazione teste' illustrata e' del tutto identica a quella di altri 5 detenuti per i quali il magistrato di sorveglianza di Torino recentemente ha emesso i provvedimenti di sospensione della pena ex art. 684 del c.p.p. Nei casi di specie, grazie alla citata norma, sono state annullate le decisioni del tribunale di sorveglianza e della Corte di cassazione, senza peraltro consentire il riesame delle singole richieste al Tribunale di sorveglianza. Dal punto di vista giuridico le citate disposizioni sconvolgono alla radice il sistema normativo teste' illustrato in tema di differimento pena e si pongono in modo chiaro in totale contrasto con gli artt. 2, 3, 27 e 111 della Costituzione. L'art. 4 del d.l. citato pare innanzitutto in contrasto con l'art. 2 della Costituzione laddove viene a smentire l'assunto di una generalizzata tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, quantomeno nei confronti di coloro i cui interessi risultino aggrediti da chi trovarsi nelle condizioni descritte dal decreto stesso, che si vedono privati di efficace tutela penale in assenza dello strumento che ne assicura la necessaria forza intimidatrice. Piu' evidente si manifesta il contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della nostra Carta costituzionale. Irragionevole appare infatti la discriminazione dei malati "comuni" rispetto agli affetti da HIV (in particolare ove si rifletta che la scienza medica riscontra i medesimi caratteri di gravita', irreversibilita' ed ingravescenza - tipici della patologia da HIV - in molte malattie la cui elencazione richiederebbe molto pagine). Su questo aspetto specifico dell'intervento discriminatorio della nuova normativa, intendiamo offrire all'attenzione della Corte costituzionale la esperienza vissuta dal collegio giudicante nel corso dell'odierna udienza in cui, visivamente e concretamente, e' apparsa in tutta la sua evidenza la discriminazione introdotta con il citato art. 4 tra i detenuti ammalati da AIDS conclamata o con deficienze immunitarie grave e tutti gli altri detenuti effetti da malattie gravi, irreversibili ed ingravescenti. Durante l'udienza odierna il Tribunale ha esaminato 7 richieste formulate ai sensi delle citate norme del d.l. e del d.m. fra le quali quella di Bruschi Valentino oggetto della presente eccezione. Nella stessa udienza il collegio ha trattato anche la domanda formulata ex art. 147 n. 2 del c.p. dal detenuto Rotundo Guerino. La prima macroscopica differenziazione e' di ordine procedurale e formale. Le 7 richieste, formulate ai sensi delle citate norme, sono suffragate da una sola certificazione sanitaria comprovante l'AIDS conclamata o da analisi di laboratorio attestanti una deficienza immunitaria pari od inferiore agli indici di cui all'art. 3 del d.m. Sanita'. Nel caso di specie per Bruschi Valentino, sieropositivo dal 1989, l'AIDS conclamata e' stata diagnosticata nell'Ospedale Sant'Andrea di Vercelli durante un suo ricovero nel reparto infettivo per "Esofagite da Candida". Il magistrato di sorveglianza di Vercelli ha sospeso a favore di Bruschi l'esecuzione dell'ordine di carcerazione ad anni 4 e mesi 8 di reclusione ai sensi dell'art. 684 del c.p.p. grazie all'art. 4 del d.l. n. 374/1992 ed ha trasmesso gli atti al tribunale di sorveglianza di Torino. Rotundo Guerino detenuto nella Casa circondariale di Torino ha formulato istanza di cui all'art. 147 n. 2 del c.p. il 29 luglio 1992. A tale richiesta sono stati allegati: a) la cartella clinica 3 marzo 1989 del ricovero del Rotundo presso il servizio di recupero e rieducazione funzionale di Torino comprovante "una grave Tetraparesi spastica con vescica neurologica, e lo stato di scarsa autonomia motoria; b) perizia medico-legale di parte comprovante la citata infermita'; c) due provvedimenti della corte di appello di Torino sez. II con i quali furono concessi al Rotundo Guerino gli arresti domiciliari durante il procedimento di secondo grado. Il magistrato di sorveglianza di Torino con decreto 30 luglio 1992 ha respinto la richiesta formulata ex art. 684 del c.p.p. "in quanto pur in presenza di un quadro clinico grave non vi sono in atto patologie acute che potrebbero evolversi positivamente con un periodo di sospensione della pena". Il tribunale di sorveglianza, cui sono stati trasmessi gli atti, ha acquisito altresi' le cartelle cliniche dei recenti ricoveri del Rotundo presso l'ospedale maggiore di Parma ed ha disposto una perizia medico-legale affidata a due esperti di medicina legale. Dopo il deposito della relativa relazione e' stata fissata per la trattazione l'odierna udienza. Dai dati sopra illustrati risulta cosi' evidente che la malattia denunciata dall'ospedale Sant'Andrea di Vercelli comprovante AIDS conclamata per una esofagite da candida riscontrata nel Dicembre dell'anno 1991 e riguardante Bruschi Valentino e' una malattia grave ed irreversibile; anche la tetraparesi spastica con annullamento delle capacita' motorie e delle funzioni sfinteriche ed uretrali accertate sin dal 1989 nei confronti di Rotundo Guerino e' una malattia grave, irreversibile ed ingravescente. Orbene nel primo caso grazie al recente intervento normativo il magistrato di sorveglianza ha dovuto "ope legis" sospendere l'esecuzione dell'ordine di carcerazione. Nel secondo caso il magistrato di sorveglianza, nella sua autonomia di giudizio, ha ritenuto che allo stato non vi erano elementi per concedere la sospensione dell'esecuzione della pena. La pratica del Bruschi e' stata portata all'esame del tribunale senza alcun altro accertamento (peraltro non previsto dalle recenti normative), per la pratica del Rotundo e' stata necessaria l'acquisizione delle cartelle cliniche dei recenti ricoveri ospedalieri e l'effettuazione di una perizia medico-legale. La divaricazione fra le due procedure si e' accentuata ulteriormente nella fase decisionale di competenza del tribunale. Invero, qualora il tribunale non avesse sollevato l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 4 sopra citato, la vicenda processuale della pratica del Bruschi avrebbe avuto una definizione "obbligata". L'incompatibilita' che il tribunale avrebbe dovuto dichiarare tra lo stato detentivo e la malattia del Bruschi e' stata decretata dal legislatore, ed il collegio, sulla base della citata documentazione sanitaria del dicembre 1991 dell'ospedale di S. Andrea di Vercelli comprovante l'esofagite da candida in soggetto affetto da AIDS, era tenuto ad emettere un provvedimento di rinvio dell'esecuzione della pena. Invero il provvedimento conclusivo del procedimento "e' un atto dovuto". Per contro nel processo Rotundo il collegio giudicante, per stabilire se costui, affetto da malattia gravissima, irreversibile ed ingravescente, fosse meritevole o meno del beneficio richiesto, ha analizzato tutta la documentazione teste' elencata ed ha discusso a lungo anche le risposte formulate dal collegio peritale che, alla lettera F della relazione, ha testualmente concluso "La malattia non si deve ritenere incompatibile col regime carcerario detentivo, purche' siano osservate le condizioni esposte nella discussione del caso". Orbene il tribunale ha disatteso il giudizio espresso dai periti ed ha concesso a Rotundo il differimento della pena per mesi dodici. L'ordinanza relativa, ampiamente motivata su questo punto, ha espresso le valutazioni di ordine medico legale che hanno ispirato la decisione di disattendere, sia pur in parte, il giudizio del collegio peritale. In detta ordinanza, preso atto che la malattia grave ed irreversibile comporta per il soggetto un carico di sofferenza quotidiana elevato e' stato riconosciuto a Rotundo il diritto alla sospensione della pena. In tal modo, il tribunale, esercitando la sua funzione di interprete della legge ha risolto, con ordinanza motivata, il conflitto tra il potere dello Stato di esigere che la sentenza di condanna a pena detentiva emessa nei confronti di Rotundo fosse eseguita, ed il diritto di costui, affetto da malattia grave, di chiedere la sospensione della pena, tutto cio' nel pieno rispetto degli artt. 3 e 111 della Costituzione. Altrettanto irragionevole e discriminante appare la citata normativa rispetto agli ammalati "comuni" con particolari riferimenti anche all'art. 111 della Costituzione. Nelle due vicende giudiziarie teste' illustrate appare palese che nella vicenda Bruschi e' del tutto vanificata la funzione giurisdizionale della magistratura di sorveglianza nell'esercizio del suo compito istituzionale di dirimere il conflitto tra il diritto dello Stato ad eseguire le sentenze di condanna a pene detentive emesse nei confronti di Bruschi ed il suo diritto alla sospensione della pena. Questo conflitto e' stato preventivamente risolto dal legislatore con le citate norme: il tribunale deve limitarsi a dichiarare l'incompatibilita' tra lo stato detentivo e la malattia diagnosticata a Bruschi dal primario dell'ospedale Sant'Andrea di Vercelli. Nella vicenza Rotundo il potere interpretativo del tribunale di sorveglianza si e' sviluppato al piu' alto grado di professionalita' ed in piena consonanza con l'art. 111 della Costituzione. Il nuovo orientamento normativo non puo' dirsi piu' aderente al dato costituzionale neppure sotto il profilo del rispetto degli artt. 27, terzo comma e 32, primo comma, poiche' l'esito della esperienza medico-scientifica in materia rivela come l'infezione da HIV presenti caratteri di estrema dinamicita' e varieta' di situazioni, in rapporto alle quali va concretamente provato che l'applicazione della pena leda il fondamentale diritto alla salute o si risolva in un trattamento contrario al senso di umanita' (prescindendo dai casi in cui la cessazione delle cure e della assistenza comunque assicurate dalle strutture carcerarie si tradurra' in danno di quei soggetti che si vogliono invece favorire). Con ben diversa puntualita' la problematica sovraesposta era stata recepita nella circolare n. 3370/5770 del Ministero di grazia e giustizia del 25 luglio 1991 sopra ricordata - avente appunto per oggetto "I detenuti affetti da sindrome da HIV", dove dato atto della notevole variabilita' ed incostanza del quadro clinico delle infezioni da HIV, si rimandava al giudizio degli organi competenti, investiti dal "difficile compito di valutare, nei singoli casi, la sussistenza delle condizioni che consentono il permanere del soggetto in ambiente carcerario o che ne consigliano il trasferimento presso il domicilio o in una struttura esterna". Pertanto la invocata disciplina del rinvio obbligatorio della pena per gli affetti da HIV e/o AIDS conclamata - come modificata a seguito dell'entrata in vigore del d.l. 12 novembre 1992, n. 431 - appare inficiata dal vizio di illegittimita' costituzionale;