IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Emette la seguente  ordinanza  nel  procedimento  di  sorveglianza
 relativo  alla concessione di differimento della pena all'udienza del
 22 dicembre 1992, premesso che il detenuto Bruschi Valentino, nato il
 4 dicembre  1962  a  Cisliano  (Milano),  attualmente  c/o  comunita'
 "Saman"  ospitale  di Bondeno in espiazione pene anni 3, mesi 8 recl.
 sent. 29 maggio 1991 (Ferrara),  Via  S.  Biagio  n.  82  corte  app.
 Torino,  anni  1  recl. sent. 29 maggio 1991 corte app. Torino difeso
 dall'avv. di uff. Rossi E. del Foro di Torino.
    Visto il parere contrario del p.g.;
    Visti gli atti del procedimento di sorveglianza sopra specificato;
    Verificata,  preliminarmente,  la  regolarita' delle comunicazioni
 relative  al  prescritti   avvisi   al   rappresentante   del   p.m.,
 all'interessato ed al difensore;
    Considerate  le  risultanze  delle documentazioni acquisite, delle
 investigazioni e degli accertamenti svolti, della trattazione e della
 discussione di cui al separato processo verbale;
                       SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
    In data 19 settembre 1992 Valentino Bruschi, sopra  generalizzato,
 ha   indirizzato  al  magistrato  di  sorveglianza  di  Vercelli  una
 richiesta di differimento pena  in  base  al  d.l.  n.  374  dell'11
 settembre 1992.
    I  documeti  allegati  alla  domanda sono: a) la certificazione di
 A.I.D.S. conclamata rilasciata dall'ospedale S. Andrea di Vercelli  a
 firma   del   primario   del   reparto  malattie  infettive;  b)  una
 dichiarazione di dimissione del  Bruschi  dall'Ospedale  S.  Anna  di
 Ferrara del 18 settembre 1992.
    Il magistrato di sorveglianza di Vercelli con decreto 25 settembre
 1992  ha  sospeso  ai sensi dell'art. 4 del citato d.l. e 684 c.p.p.
 l'esecuzione della sentenza di condanna 29 maggio 1991 della corte di
 appello di Torino ad anni 3 e mesi 8 di reclusione e  della  sentenza
 corte  appello  Torino  29  maggio 1991 ad anni 1 di reclusione ed ha
 trasmesso gli atti al tribunale di sorveglianza di Torino.
    Al termine dell'odierna udienza, svoltasi in  assenza  di  Bruschi
 Valentino,  sentiti  il  difensore  ed  il  procuratore  generale  il
 collegio ha sollevato d'ufficio  l'eccezione  di  incostituzionalita'
 dell'art.  146  c.p.  cosi'  come  modificato  dall'art.  4  d.l. 12
 novembre 1992 n. 431.
                             D I R I T T O
    Per illustrare in modo adeguato l'eccezione di incostituzionalita'
 della citata norma e' indispensabile puntualizzare alcuni principi di
 ordine costituzionale  in  tema  di  obbligatorieta'  dell'esecuzione
 della sentenza di condanna a pena detentiva.
    In  ogni  ordinamento  giuridico  e'  riconosciuto  allo  Stato la
 potesta' di esigere la sottoposizione all'esecuzione delle condanne a
 pena detentiva di tutti coloro  dei  quali  sia  stata  accertata  la
 colpevolezza nei modi e nei termini stabiliti dalla legge.
    L'art.  3  della Costituzione e l'art. 3 del c.p. sono espressione
 di siffatto principio.
    Pertanto sussiste l'obbligo per tutte le persone condannate a pena
 detentiva di subire la pena.
    L'adempimento  di  questa  obbligazione  non  ammette  di   regola
 eccezioni.
    Le  deroghe  a  questo dovere sono legislativamente previste negli
 artt. 146, 147, 148, 163, 171, 174, 222 secondo capoverso del  codice
 penale.
    Limitando  la  nostra indagine all'esame degli artt. 146 e 147 del
 c.p. si rileva che il legislatore  nell'anno  1930,  ovverosia  prima
 dell'introduzione  degli  artt. 27 e 32 della Costituzione, (art. 27:
 le pene non possono consistere in un trattamento contrario  al  senso
 di   umanita';   art.   32:  La  Repubblica  tutela  la  salute  come
 fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettivita'),
 ha previsto una normativa in cui  sono  garantiti  i  diritti  teste'
 espressi   alle   persone   condannate   a   pena   detentive   prima
 dell'esecuzione della pena ovvero nel corso della carcerazione.
    Il rinvio e' obbligatorio o facoltativo.
    Il rinvio e' previsto in modo obbligatorio (art. 146 del c.p.)
       a) se deve essere eseguito contro una donna incinta;
       b) se deve essere eseguita contro una donna che abbia partorito
 da meno di sei mesi.
    La   finalita'  di  questo  eccezionale  istituto  e'  palese:  il
 legislatore ritiene che sia contario al senso di umanita'  consentire
 che  una  donna  incinta  partorisca  in  carcere  ovvero che stia in
 carcere con un neonato di pochi mesi.
    L'eccezionalita' dei due eventi impone il sacrificio  del  diritto
 dello  Stato  a  dare esecuzione alla pena detentiva nei confronti di
 una donna che trovasi nelle condizioni dianzi descritte.
    Questa deroga e' accettabile anche  sotto  un  altro  profilo:  la
 rinuncia  all'esercizio  di detta potesta' ha una durata limitata nel
 tempo.
    In tale ipotesi l'organo preposto alla decisione e' obbligato  ope
 legis a concedere il beneficio richiesto acquisendo la certificazione
 sanitaria comprovante le condizioni previste dall'art. 146 del c.p.
    Il  rinvio  dell'esecuzione della pena e' facoltativo nei seguenti
 casi:
    "L'esecuzione della pena puo' essere differita (art. 147 c.p.):
      1) se e' presentata domanda di grazia (174) e l'esecuzione della
 pena non deve essere differita a norma dell'articolo precedente;
      2) se una pena restrittiva della liberta' personale deve  essere
 eseguita  contro  chi  si  trova  in  condizioni  di grave infermita'
 fisica;
      3) se una pena restrittiva della liberta' personale deve  essere
 eseguita  contro  donna,  che  ha partorito da piu' di sei mesi ma da
 meno di un anno, e non vi e' modo di affidare il figlio ad altri  che
 alla madre".
    La  differenza  essenziale fra le due ipotesi di rinvio della pena
 e' rappresentata dal ruolo svolto  dall'organo  preposto  a  decidere
 sulle istanze.
    Prima  di  illustrare  questo dato saliente e' opportuno ricordare
 che, ai sensi dell'art. 589 del c.p.p. (codice abrogato)  gli  organi
 delegati alla decisione erano il pretore ed il p.m. competente, ed il
 Ministro  di  grazia e giustizia "quando l'ordine di carcerazione era
 gia' stato eseguito" (norma questa ultima dichiarata incostituzionale
 nell'anno 1979).
    L'art. 22 della legge n. 663/1986 ha  radicalmente  modificato  la
 competenza in ordine agli organi decisionali.
    Invero  con  tale  norma  e'  stato  stabilito  che:  "in  ciascun
 distretto  di  corte  di  appello  e   in   ciascuna   circoscrizione
 territoriale  di sezione distaccata di corte di appello e' costituito
 un tribunale di sorveglianza competente per l'affidamento in prova al
 servizio sociale, la  detenzione  domiciliare,  la  semiliberta',  la
 liberazione  condizionale (176 del c.p.), la riduzione di pena per la
 liberazione anticipata, la revoca o cessazione dei suddetti benefici,
 il rinvio  obbligatorio  o  facoltativo  dell'esecuzione  delle  pene
 detentive  ai  sensi  degli  artt.  146  e 147, nn. 2 e 3, del codice
 penale, nonche' per ogni altro provvedimento ad esso attribuito dalla
 legge".
    Questa normativa e' stata recepita anche nell'art. 684  del  nuovo
 codice di procedura penale.
    "Il   tribunale  di  sorveglianza  (677)  provvede  in  ordine  al
 differimento dell'esecuzione delle pene detentive  e  delle  sanzioni
 sostitutive  della  semidetenzione  e  della liberta' controllata nei
 casi previsti dagli artt. 146 e 147 del codice penale,  salvo  quello
 previsto  dall'art.  147  primo  comma,  del codice penale, nel quale
 provvede il Ministro di grazia e giustizia.
    Il tribunale ordina, quando occorre, la liberazione del detenuto e
 adotta gli altri provvedimenti conseguenti".
    Questa nuova disciplina,  che  ha  individuato  nel  tribunale  di
 sorveglianza  l'organo  legittimato ad emettere la decisione nei casi
 previsti dagli artt. 146 e 147  del  c.p.  ha  evidenti  riflessi  in
 ordine  alla  natura  del  provvedimento  conclusivo del procedimento
 relativo.
    Invero, sul piano formale e sostanziale,  e'  stata  estesa  anche
 alla  materia  di cui alla citata norma la competenza giurisdizionale
 del tribunale di sorveglianza che era stata introdotta per le  misure
 alternative dalla legge n. 354/1975.
    Infatti  il  tribunale  di  sorveglianza,  composto da due giudici
 ordinari e da due esperti, risolve imparzialmente il conflitto tra il
 potere dello Stato di esigere che la  sentenza  di  condanna  e  pena
 detentiva  sia  eseguita o continui ad essere eseguita, ed il diritto
 del condannato  a  chiedere  che  la  sentenza  di  condanna  a  pena
 detentiva non sia eseguita o sia sospesa nelle ipotesi previste negli
 artt. 146 e 147 del c.p.
    La  procedura  prevista  per  la definizione di questo giudizio e'
 disciplinata dagli artt. 666, 678 del c.p.p.
    All'interno di questa unica funzione giurisdizionale del tribunale
 di sorveglianza  si  devono  pero'  distinguere  le  ipotesi  di  cui
 all'art. 146 del c.p. rispetto a quelle di cui all'art. 147 del c.p.
    Invero,  cosi'  come e' stato evidenziato sopra, nella trattazione
 delle ipotesi disciplinate nell'art. 146 del c.p. il tribunale svolge
 un ruolo notarile in quanto il legislatore ha inteso impedire in modo
 assoluto, per le predette persone condannate,  il  loro  ingresso  in
 carcere:  l'organo  giudicante  si  limita  quindi  a  verificare  se
 sussistano le condizioni oggettive sopra descritte sulla base di  una
 certificazione  sanitaria  pubblica  ed in caso di riscontro positivo
 concede il rinvio dell'esecuzione delle pene.
    Questa notevole limitazione al potere giurisdizionale  dell'organo
 giudicante,  derogatorio  rispetto  ai  principi generali di cui agli
 art. 3 e 111 della Costituzione,  e'  ampiamente  giustificato  dalle
 ragioni dianze espresse.
    Nell'ambito  delle  ipotesi  di  cui  all'art.  147 del c.p. ed in
 particolare per quella di cui al n. 2 il procedimento giurisdizionale
 si sviluppa, sia nella fase istruttoria,  sia  in  quella  decisione,
 senza  limitazione di sorta e nel pieno rispetto degli artt. 111, 27,
 32 e 3 della Costituzione.
    Nell'esercizio di questa funzione giurisdizionale i  tribunali  di
 sorveglianza  e  la Corte di cassazione sezione I hanno elaborato una
 giurisprudenza in ordine all'interpretazione dell'art. 147 n.  2  del
 c.p.  i cui cardini sono espressi dalle seguenti sentenze della Corte
 di cassazione.
    Sentenza sez. I 7 maggio 1991 n. 213 (Reina): " ..che ai sensi del
 citato art. 147, n. 2 del c.p., l'esecuzione della pena  puo'  essere
 sospesa  se  deve  essere  eseguita  nei confronti di chi si trova in
 condizioni  di  grave  infermita'  fisica;  che  per  individuare   i
 presupposti   in   presenza   dei   quali   e'  legittimo  un  rinvio
 dell'esecuzione della pena e' d'uopo aver  riguardo  a  tre  principi
 desumibili dalla Costituzione: il principio di uguaglianza di tutti i
 cittadini  di  fronte  alla  legge  senza  distinzione  di condizioni
 personali (art. 3), nonche' quelli secondo cui le  pene  non  possono
 consistere  in  trattamenti contrari al senso di umanita' (art. 27) e
 la salute e' un diritto fondamentale dell'individuo (art. 32); che da
 tali principi e' agevole desumere:
       a) che le pene inflitte dai competenti  organi  giurisdizionali
 debbono  essere  eseguite  nei  confronti  di  coloro  che  le  hanno
 riportate;
       b) che tale esecuzione  non  e'  preclusa  da  eventuali  stati
 patologici  del  soggetto suscettibili di generico miglioramento o di
 una piu' adeguata cura a  seguito  del  ritorno  alla  liberta',  non
 esistendo  malato al quale la cessazione della detenzione non arrechi
 giovamento, quando meno sotto il profilo psicologico;
       c) che in tanto uno stato morboso del condannato  legittima  la
 sospensione  dell'esecuzione in quanto la prognosi sia infausta quoad
 vitam, ovvero il soggetto possa giovarsi,  in  liberta',  di  cure  e
 trattamenti  indispensabili  non  praticabili in stato di detenzione,
 neppure mediante ricovero  in  ospedale  civili  o  in  altri  luoghi
 esterni  di  cura ai sensi dell'art. II comma secondo legge 26 luglio
 1975 numero 354, ovvero,  ancora,  a  cagione  della  gravita'  delle
 condizioni,  l'espiazione  della pena si appalesi in contrasto con il
 senso di umanita' del quale si e' detto;  che  i  giudici  di  merito
 hanno escluso che ricorra nella specie alcuna delle situazioni teste'
 enunciate;  che, invero, detti giudici, con una motivazione immune da
 vizi  logico-giuridici,  sulla  scorta  della  documentazione  medico
 acquisita  anche mediante un'indagine peritale, hanno ritenuto che le
 partologie dalle quali il ricorrente e' affetto non  si  manifestano,
 allo  stato,  con sintomatologie denotanti una particolare gravita' e
 non trasformano la pena in  un  trattamento  contrario  al  senso  di
 umanita';  che la terapia prescritta dai medici al Reina, consiste in
 un trattamento farmacologico per via orale, puo' essere adeguatamente
 praticata   permanendo    l'attuale    status    detentionis;    che,
 l'irreversibilita'  dell'infezione  contratta  (sieropositivita'  "da
 HIV, non ancora evoluta in AIDS vero e proprio)  non  comporta,  ipso
 iure,  il  differimento  dell'esecuzione  della pena se non quando la
 stessa  si  manifesti  con  una   patologia   a   prognosi   infausta
 ravvicinata,  ovvero le condizioni di salute siano tali da rendere la
 protrazione della detenzione in contrasto con il senso di umanita' e,
 quindi, con la Carta fondamentale dello Stato (v. art. 27  comma  III
 Cost.)".
    Sentenza sez. I 31 ottobre 1990 - Pennone: "Enrico Pennone ricorre
 per  Cassazione  avverso  l'ordinanza  6 aprile 1990, con la quale il
 tribunale di sorveglianza di Torino  ha  rigettato  la  richiesta  di
 differimento  dell'esecuzione  della  pena  ex  art. 1472 del c.p. Il
 ricorso non puo' essere accolto in quanto il provvedimento  impugnato
 risulta  immune  da denunciati vizi di violazione di legge e mancanza
 di motivazione. Esso, per vero, e' sorretto  da  adeguata  e  congrua
 motivazione  che  trova  puntuale  riferimento  sulla  documentazione
 sanitaria in atti volta a dare  certezza  che,  allo  stato,  pur  in
 presenza  di AIDS, non sussistono a carico dell'interessato patologie
 determinanti   pericolo   di   morte  imminente  e  percio'  tali  da
 giustificare l'applicazione dell'eccezionale  istituto  di  cui  alla
 norma.  D'altro canto, il protocollo terapeutico, stabilito da medici
 per il Pennone,  di  natura  completamente  farmacologica,  ben  puo'
 essere  praticato perdurando l'attuale stato di detenzione, salvi gli
 eventuali  ricoveri  ospedalieri.  Vi  e'  da  rilevare  infine  che,
 l'irreversibilita' dell'infezione suddetta non comporta ipso-iure, il
 differimento  dell'esecuzione  della  pena se non quando dia luogo ad
 una patologia di prognosi  infausta  ravvicinata,  ovvero  quando  le
 condizioni  di  salute  del condannato siano divenute cosi' gravi, da
 rendere la protrazione della detenzione in contrasto con il senso  di
 umanita'  e percio' con l'articolo 27 terzo comma della Costituzione.
 Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente alle spese
 processuali. Per questi motivi la  Corte  di  cassazione,  visti  gli
 artt.  611  e  616  del  c.p.p.  rigetta  il  ricorso  e  condanna il
 ricorrente al pagamento delle spese  di  procedimento.  Roma  li'  31
 ottobre 1990".
    Ai   fini   di   un   maggiore  approfondimento  del  problema  e'
 indispensabile richiamare il contenuto della relazione medico  legale
 affidato al primario dell'ospedale delle malattie infettive di Torino
 "Amedeo  di  Savoia"  e  sulla  cui base il tribunale di sorveglianza
 aveva deciso sull'istanza del detenuto Pennone  di  cui  alla  citata
 sentenza   31   ottobre  1990  della  Cassazione:  "Giudizio  clinico
 conclusivo soggetto cui e' stata posta diagnosi di  AIDS  conclamata,
 al    momento   senza   infezioni   opportunistiche   in   atto.   La
 sieropositivita' per l'HIV-AG, il valore della  betaduemicroglobulina
 e  il  decremento  dei  linfociti  T4 rendono necessaria una regolare
 monitorizzazione delle condizioni cliniche e dei parametri bioumorali
 per cogliere l'eventuale comparsa  di  infezioni  opportunistiche  o,
 comunque,  l'aggravarsi  dell'insufficienza  immunitaria. Risposte ai
 quesiti: a) Condizioni generali e  cliniche  sufficienti,  non  segni
 obiettivabili  in infezioni opportunistiche in atto. b) - Il paziente
 e' affetto da  AIDS  conclamata  in  quanto  nel  gennaio  scorso  ha
 superato  esofagite  da  candida  peraltro  guarita  con  la corretta
 terapia somministratagli, come  dimostra  il  referto  del  controllo
 esofagoscopico  eseguito  il  26  gennaio  1991.  c)  -  L'infermita'
 (l'AIDS) e' grave e determina, nel tempo, pericolo di morte. d) -  La
 malattia (l'AIDS) e' infermita' grave a carattere irreversibile, allo
 stato  attuale  delle conoscenze, la cui durata e' pero' difficile da
 prevedere, essendo strettamente correlata con il  tipo  di  infezione
 opportunistica  che ne ha caratterizzato l'insorgenza e l'evoluzione.
 e)  -  L'infezione  opportunistica   (la   candidosi   espfagea)   e'
 attualmente  in  fase  di quiescenza un'eventuale riattivazione della
 medesima potrebbe comunque essere trattata presso il  centro  clinico
 della  casa circondariale a patto, ovviamente che il paziente accetti
 le visite mediche e la terapia prescrittagli.  f)  -  Attualmente  la
 situazione  clinica e' compatibile con lo stato di carcerazione anche
 se e' necessario continuare a controllare  i  parametri  immunologici
 del  paziente che risulta essere positivo per l'antigene HIV ed avere
 avuto, negli ultimi mesi un decremento  significativo  dei  linfociti
 T4.  g)  -  Buona  parte degli esami di controllo per il monitoraggio
 dell'evoluzione  dell'infezione  e  della  risposta  al   trattamento
 dell'infezione  possono  essere  eseguiti presso il laboratorio della
 casa circondariale. Per quelli  da  inviare  all'ospedale  Amedeo  di
 Savoia,  (distante  circa  2 chilometri) i tempi sono quelli tecnici,
 vale a dire qualche ora in piu' rispetto  all'attesa  delle  risposte
 per i pazienti ricoverati: la differenza essendo costituita dal tempo
 impiegato  nel  trasporto  dei  prelievi  e nel ritiro dei rispettivi
 referti. h) - Ritengo che la  formulazione  dell'ultimo  quesito  sia
 insufficientemente  precisa  e, soprattutto, che non possa comportare
 una risposta univoca. Le circolari ministeriali inoltre, a quanto  mi
 risulta,  non  sono leggi, e qualora fossero da considerare tali esse
 renderebbero superflui gli accertamenti peritali. La diagnosi di AIDS
 si pone in seguito alla comparsa delle infezioni  opportunistiche  le
 quali   non  sono  sempre  caratterizzate  dalla  stessa  gravita'  e
 soprattutto dalla  stessa  prognosi  nel  tempo.  Secondo  la  nostra
 esperienza,  ad esempio, le forme che si manifestano con un'esofagite
 da candida hanno una sopravvivenza di almeno tre anni e, inoltre, non
 e' per solito l'esofagite a  determinare  l'exitus  del  paziente  ma
 bensi'  un'altra infezione piu' grave e ad evoluzione piu' drammatica
 che  vi  si  sovrappone.  In  sintesi,  un  comune  cittadino   nelle
 condizioni  del  periziato  non  verrebbe  trattenuto  in ospedale ma
 ritornerebbe in famiglia e curato a domicilio.  La  stessa  cosa  non
 accadrebbe invece in caso di polmonite da pneumocisti in fase acuta o
 di  neurotoxoplasmosi  o  di  meningite da criptococco. Non e' quindi
 possibile, a mio avviso, emettere un giudizio  di  carattere  formale
 circa la compatibilita' o meno con la vita carceraria dei soggetti.
    Gli  ampi  stralci  della decisione della Corte di cassazione ed i
 passi  significativi  della  relazione  medico-legale  teste'  citata
 documentano quindi in modo rigoroso che:
       a)  il  tribunale  di  sorveglianza  non esamina in astratto la
 compatibilita' tra una malattia grave, irreversibile ed ingravescente
 e lo stato detentivo, ma valuta in concreto se il quadro  clinico  di
 un  detenuto  affetto  da malattia grave ed irreversibile sia tale da
 determinare l'incompatibilita' del suo stato di malato grave  con  la
 prosecuzione della detenzione.
    Nell'esercizio ai sensi dell'art. 111 della Costituzione di questa
 funzione  giurisdizionale  il collegio, di cui fanno parte un esperto
 in medicina ed un esperto in psichiatria,  procede  ad  una  puntuale
 applicazione  dei  principi  fissati  in modo costante dalla Corte di
 cassazione e teste' riferiti.
       b) In tale contesto trovano puntuale applicazione per  tutti  i
 detenuti affetti da malattia grave:
       1)  Il principio di cui all'art. 27 della Costituzione: infatti
 laddove il tribunale rileva che la espiazione della pena si  appalesa
 per  quel  soggetto  contrario  con  il  senso di umanita', ordina la
 sospensione della pena.
       2) Il principio di cui all'art. 32 della Costituzione:  infatti
 esaminando  la  singola  domanda  di  un detenuto affetto da malattia
 grave, il tribunale qualora accerti in concreto che la cura  di  tale
 malattia non e' praticabile in un determinato istituto penitenziario,
 ordina  il  differimento  della  pena  fissandone  caso  per  caso il
 periodo.
       3) Il principio di cui all'art. 3  della  Costituzione:  invero
 tutti  coloro  che  sono  affetti  da  malattia  grave irreversibile,
 ingravescente e abbisognevole di particolari cure farmacologiche sono
 assoggettate alla stessa disciplina senza alcuna distinzione.
    Pertanto  dall'entrata in vigore del citato art. 22 della legge n.
 663/1986 ogni tribunale di sorveglianza ha provveduto a concedere  la
 sospensione  della  pena anche agli ammalati di AIDS conclamata o con
 grado  di  deficienza  immunitaria  grave,  purche'   fossero   state
 accertate   le  condizioni  stabilite  nella  citata  sentenza  della
 Cassazione.
       4) Tutti i provvedimenti del  tribunale,  positivi  o  negativi
 sono  fondati  su  una  ampia  documentazione sanitaria e talvolta su
 perizie medico-legali disposte nei casi piu' complessi.
    Conclusivamente sul punto si puo' affermare che  grazie  a  questa
 normativa,  peraltro  coerente con le citate disposizioni della Carta
 costituzionae, il problema dei  detenuti  e  dei  condannati  liberi,
 colpiti da grave forme di malattia incompatibile con la detenzione e'
 disciplinato  in  modo  unitario  e  congruo.  Inoltre  il sistema ha
 approntato un altro strumento, la detenzione  domiciliare  (art.  47-
 ter ordinamento penitenziario), grazie al quale i detenuti gravemente
 ammalati,  la cui pena residua e' inferiore o pari ad anni 2, possono
 espiare  la  pena  nelle  proprie  abitazioni  o  in   altri   luoghi
 opportunamente predisposti per le cure mediche e farmacologiche.
    Citiamo un dato statistico significativo che conferma la validita'
 degli   strumenti  normativi  teste'  illustrati:  nell'anno  1991  i
 tribunali di sorveglianza hanno concesso n.  511  rinvii  della  pena
 detentiva  ex art. 146 e 147 c.p.; e n. 346 detenzioni domiciliari ex
 art. 47- ter O.P.
    Questi  dati  sono  stati  pubblicati  nel  bollettino  n.  1   di
 informazione   della   magistratura  di  sorveglianza  del  Consiglio
 superiore della magistratura.
    E'  superfluo  evidenziare  che  una  parte  cospicua   di   detti
 provvedimenti  riguardano  condannati,  detenuti o liberi, affetti da
 AIDS conclamata o con deficienza immunitaria grave.
    Si puo' pertanto affermare che, in tema di tutela della salute dei
 detenuti  gravemente  ammalati,  la  legislazione  vigente,  con   il
 supporto   determinante   dell'amministrazione  penitenziaria,  della
 magistratura di sorveglianza e della Corte  di  cassazione,  pone  il
 nostro  Stato  in  una  posizione  di  avanguardia nel contesto delle
 Nazioni.
   Nonostante cio', e' stata introdotta, in  modo  inopinato  e  senza
 alcun  dibattito  culturale  e scientifico, una disciplina autonoma e
 differenziata in tema di  differimento  della  pena  per  le  persone
 detenute  o  condannate, a pena detentiva, ma libere, affette da AIDS
 conclamata o con deficit immunitario grave,  stabilendone  ope  legis
 l'incompatibilita'  assoluta  con  lo stato detentivo con le seguenti
 disposizioni.
    "Art. 4 d.l. 12 novembre 1992: nel primo comma dell'art. 146  del
 c.p.  e'  aggiunto  il  seguente  numero:  (3) se deve aver luogo nei
 confronti di  persona  affetta  da  infezione  da  HIV  nei  casi  di
 incompatibilita'  con  lo  stato  di  detenzione  ai  sensi dell'art.
 286-bis, comma primo del codice di procedura penale".
    Art. 3 d.l. 12 novembre 1992: "L'incompatibilita' sussiste, ed e'
 dichiarata dal giudice, nei  casi  di  AIDS  conclamata  o  di  grave
 deficienza immunitaria.
    Il  primo sentimento che si prova a leggere questa disposizione e'
 quello di stupore.
    Invero  la  stessa commissione nazionale per la lotta all'AIDS, ha
 recentemente affermato: "che il quadro clinico delle infezioni da HIV
 e' caratterizzato da una estrema dinamicita' e varieta' di situazioni
 per cui possono verificarsi casi di paziente affetti dalla  infezione
 HIV  in  uno  stadio  epidemiologicamente non classificabile con AIDS
 (soggetti classificati come 4 A, 4 C2, 4  E),  che  pure  versano  in
 condizioni  clinicamente  gravi  e  che  necessitano di quegli stessi
 inderogabili provvedimenti sanitari  (controlli,  ricoveri,  terapie)
 che  sono  stati  previsti  per  i  soggetti  in fase AIDS. La stessa
 Commissione ha,  altresi',  precisato  che  le  suddette  indicazioni
 debbano   rappresentare   un  contributo  nel  difficile  compito  di
 valutare, nei singoli  casi,  la  sussistenza  delle  condizioni  che
 consentono  il permanere del soggetto in ambiente carcerario o che ne
 consigliano il trasferimento nel domicilio o in struttura esterna".
    "Circolare n. 3320/5770 del 20 luglio 1991 del direttore  generale
 del D.A.P.".
    Sottolineiamo  che la predetta commissione nel citato documento ha
 evidenziato "il difficile compito di valutare, nei singoli  casi,  la
 sussistenza delle condizioni che consentono il permanere del soggetto
 in ambiente carcerario.
    Di  fronte  a questo esplicito riconoscimento della difficolta' di
 valutare caso per caso la incompatibilita' fra stato detentivo  e  la
 malattia,  lo  stupore, dianzi espresso, assume la connotazione dello
 sbigottimento nel constatare che e' stato  introdotto  per  legge  un
 principio  assoluto  di incompatibilita' tra la malattia dell'AIDS ed
 il carcere, scientificamente errato e giuridicamente contrastante con
 i principi fissati negli artt. 2, 3, 27, 32 e 111 della Costituzione.
    Invero la valutazione delle condizioni di un malato  di  AIDS  non
 puo'  discendere  da  una semplice conta dei linfociti CD4 (=T4), che
 pur   essendo   un'espressione   del   deterioramento   dello   stato
 immunitario,  quindi  di una situazione di rischio, non ha di per se'
 significato di AIDS in fase grave.  La  gravita'  della  malattia  e'
 invece  espressa,  oltre che dal numero dei T4, dal tipo di infezione
 opportunistica   e   soprattutto   dalla   localizzazione    d'organo
 dell'infezione stessa.
    Va  da se' che una polmonite interstiziale da Pneumocystis carinii
 o da Cytome galovirus, con una grave  compromissione  della  funzione
 respiratoria,  o  una lesione neurologica da Toxiplasma gondii, o una
 encefalite da Cytomegalovirus o  da  virus  erpetico,  a  parita'  di
 numero  di  T4,  sono  ben  piu'  gravi  di  una esofagite da Candida
 albicans che offre, tra l'altro, buone prospettive di remissione.  E'
 insomma  difficile  stabilire a priori, su basi teoriche, la gravita'
 di un quadro clinico di un ammalato di  AIDS  e  conseguentemente  e'
 assurdo  definire  a  priori  la  sua  incompatibilita'  con lo stato
 detentivo.
    Le affermazioni teste' espresse sono  comprovate  da  una  vicenda
 giudiziaria  che  e' stata esaminata dal tribunale di sorveglianza di
 Torino.
    I medici dell'ospedale "Amedeo di Savoia" di Torino il 25 febbraio
 1986 avevano diagnosticato al  detenuto  A.C.  la  malattia  di  AIDS
 conclamata  in  seguito ad un ricovero per una candidosi esofagea che
 dopo la cura e' andata in remissione.
    Nel corso di circa 7 anni vi sono stati episodi di recidiva  della
 stessa malattia che si sono risolti con esito positivo.
    Attualmente  persiste  per  A.C. la diagnosi di AIDS conclamata in
 assenza di  malattie  opportunistiche,  con  un  deficit  immunitario
 esplicitato da un numero di linfociti T/CDA + pari a 463 per mmc.
    Il  tribunale  di  sorveglianza  di Torino, con decisione delli 28
 giugno 1991 aveva gia' respinto la richiesta  formulata  da  A.C.  ai
 sensi dell'art. 147 n. 2 del c.p.
    La  Corte  di  cassazione  sez.  I  con  sentenza n. 4946 delli 17
 dicembre 1991 aveva respinto il ricorso con la seguente  motivazione:
 " a) l'infermita' del condannato, pur essendo grave ed irreversibile,
 in assenza di malattia opportunistica non e' compatibile con lo stato
 detentivo  anche  a  causa  della fase di quiescenza dell'AIDS; b) la
 terapia in atto e' stata magistralmente condotta".
    Orbene  con   l'innovazione   normativa   teste'   esposta,   A.C.
 documentando  la  diagnosi di candidosi esofagea del 26 febbraio 1986
 ha ottenuto dal magistrato di sorveglianza  il  25  ottobre  1992  la
 sospensione dell'esecuzione della pena ex art. 684 del c.p.p.
    La  situazione teste' illustrata e' del tutto identica a quella di
 altri 5 detenuti per i quali il magistrato di sorveglianza di  Torino
 recentemente  ha  emesso i provvedimenti di sospensione della pena ex
 art. 684 del c.p.p.
    Nei casi di specie, grazie alla citata norma, sono state annullate
 le  decisioni  del  tribunale  di  sorveglianza  e  della  Corte   di
 cassazione,  senza  peraltro  consentire  il  riesame  delle  singole
 richieste al Tribunale di sorveglianza.
    Dal punto di vista giuridico le  citate  disposizioni  sconvolgono
 alla  radice  il  sistema  normativo  teste'  illustrato  in  tema di
 differimento pena e si pongono in modo chiaro in totale contrasto con
 gli artt. 2, 3, 27 e 111 della Costituzione.
    L'art. 4 del d.l.  citato  pare  innanzitutto  in  contrasto  con
 l'art. 2 della Costituzione laddove viene a smentire l'assunto di una
 generalizzata  tutela  dei  diritti inviolabili dell'uomo, quantomeno
 nei confronti di coloro i cui interessi risultino  aggrediti  da  chi
 trovarsi nelle condizioni descritte dal decreto stesso, che si vedono
 privati  di  efficace tutela penale in assenza dello strumento che ne
 assicura la necessaria forza intimidatrice.
    Piu' evidente si  manifesta  il  contrasto  con  il  principio  di
 uguaglianza sancito dall'art. 3 della nostra Carta costituzionale.
    Irragionevole   appare   infatti  la  discriminazione  dei  malati
 "comuni" rispetto agli affetti da HIV (in particolare ove si rifletta
 che la scienza medica riscontra i  medesimi  caratteri  di  gravita',
 irreversibilita'  ed  ingravescenza - tipici della patologia da HIV -
 in molte malattie la cui elencazione richiederebbe molto pagine).
    Su questo aspetto specifico dell'intervento discriminatorio  della
 nuova   normativa,  intendiamo  offrire  all'attenzione  della  Corte
 costituzionale la esperienza  vissuta  dal  collegio  giudicante  nel
 corso  dell'odierna  udienza  in cui, visivamente e concretamente, e'
 apparsa in tutta la sua evidenza la discriminazione introdotta con il
 citato art. 4 tra i  detenuti  ammalati  da  AIDS  conclamata  o  con
 deficienze  immunitarie  grave  e tutti gli altri detenuti effetti da
 malattie gravi, irreversibili ed ingravescenti.
    Durante l'udienza odierna il Tribunale ha  esaminato  7  richieste
 formulate  ai  sensi  delle  citate norme del d.l. e del d.m. fra le
 quali quella di Bruschi Valentino oggetto della presente eccezione.
    Nella  stessa  udienza  il  collegio  ha trattato anche la domanda
 formulata ex art. 147 n. 2 del c.p. dal detenuto Rotundo Guerino.
    La prima macroscopica differenziazione e' di ordine procedurale  e
 formale.
    Le  7  richieste,  formulate  ai  sensi  delle  citate norme, sono
 suffragate da una sola certificazione  sanitaria  comprovante  l'AIDS
 conclamata  o  da  analisi  di  laboratorio attestanti una deficienza
 immunitaria pari od inferiore agli indici di cui all'art. 3 del  d.m.
 Sanita'.
    Nel  caso di specie per Bruschi Valentino, sieropositivo dal 1989,
 l'AIDS conclamata e' stata diagnosticata nell'Ospedale Sant'Andrea di
 Vercelli durante un suo ricovero nel reparto infettivo per "Esofagite
 da Candida".
    Il magistrato di sorveglianza di Vercelli ha sospeso a  favore  di
 Bruschi  l'esecuzione  dell'ordine di carcerazione ad anni 4 e mesi 8
 di reclusione ai sensi dell'art. 684 del c.p.p. grazie all'art. 4 del
 d.l.  n.  374/1992  ed  ha  trasmesso  gli  atti  al  tribunale   di
 sorveglianza di Torino.
    Rotundo  Guerino  detenuto  nella  Casa circondariale di Torino ha
 formulato istanza di cui all'art. 147 n. 2  del  c.p.  il  29  luglio
 1992.
    A  tale  richiesta  sono  stati allegati: a) la cartella clinica 3
 marzo 1989 del ricovero del Rotundo presso il servizio di recupero  e
 rieducazione  funzionale di Torino comprovante "una grave Tetraparesi
 spastica con vescica neurologica, e  lo  stato  di  scarsa  autonomia
 motoria;  b)  perizia  medico-legale  di  parte comprovante la citata
 infermita'; c) due provvedimenti della corte  di  appello  di  Torino
 sez.  II  con  i quali furono concessi al Rotundo Guerino gli arresti
 domiciliari durante il procedimento di secondo grado.
    Il magistrato di sorveglianza di Torino con decreto 30 luglio 1992
 ha respinto la richiesta formulata ex art. 684 del c.p.p. "in  quanto
 pur  in  presenza  di  un  quadro  clinico  grave non vi sono in atto
 patologie acute che potrebbero evolversi positivamente con un periodo
 di sospensione della pena".
    Il tribunale di sorveglianza, cui sono stati trasmessi  gli  atti,
 ha  acquisito  altresi' le cartelle cliniche dei recenti ricoveri del
 Rotundo presso l'ospedale  maggiore  di  Parma  ed  ha  disposto  una
 perizia medico-legale affidata a due esperti di medicina legale. Dopo
 il  deposito  della  relativa  relazione  e'  stata  fissata  per  la
 trattazione l'odierna udienza.
    Dai dati sopra illustrati risulta cosi' evidente che  la  malattia
 denunciata  dall'ospedale  Sant'Andrea  di  Vercelli comprovante AIDS
 conclamata per una esofagite  da  candida  riscontrata  nel  Dicembre
 dell'anno  1991 e riguardante Bruschi Valentino e' una malattia grave
 ed irreversibile; anche  la  tetraparesi  spastica  con  annullamento
 delle  capacita'  motorie  e  delle  funzioni sfinteriche ed uretrali
 accertate sin dal 1989  nei  confronti  di  Rotundo  Guerino  e'  una
 malattia grave, irreversibile ed ingravescente.
    Orbene  nel  primo  caso grazie al recente intervento normativo il
 magistrato  di  sorveglianza  ha  dovuto   "ope   legis"   sospendere
 l'esecuzione dell'ordine di carcerazione.
    Nel   secondo  caso  il  magistrato  di  sorveglianza,  nella  sua
 autonomia di giudizio, ha  ritenuto  che  allo  stato  non  vi  erano
 elementi per concedere la sospensione dell'esecuzione della pena.
    La  pratica  del  Bruschi e' stata portata all'esame del tribunale
 senza alcun altro accertamento (peraltro non previsto  dalle  recenti
 normative),   per   la   pratica  del  Rotundo  e'  stata  necessaria
 l'acquisizione  delle  cartelle   cliniche   dei   recenti   ricoveri
 ospedalieri e l'effettuazione di una perizia medico-legale.
    La   divaricazione   fra   le   due  procedure  si  e'  accentuata
 ulteriormente nella fase decisionale di competenza del tribunale.
    Invero, qualora il tribunale non avesse sollevato  l'eccezione  di
 incostituzionalita'  dell'art. 4 sopra citato, la vicenda processuale
 della pratica del Bruschi avrebbe avuto una definizione "obbligata".
    L'incompatibilita' che il tribunale avrebbe dovuto dichiarare  tra
 lo  stato  detentivo e la malattia del Bruschi e' stata decretata dal
 legislatore, ed il collegio, sulla base della  citata  documentazione
 sanitaria  del  dicembre  1991 dell'ospedale di S. Andrea di Vercelli
 comprovante l'esofagite da candida in soggetto affetto da  AIDS,  era
 tenuto  ad  emettere un provvedimento di rinvio dell'esecuzione della
 pena.
    Invero il provvedimento conclusivo del procedimento  "e'  un  atto
 dovuto".
    Per  contro  nel  processo  Rotundo  il  collegio  giudicante, per
 stabilire se costui, affetto da malattia gravissima, irreversibile ed
 ingravescente, fosse meritevole o meno del  beneficio  richiesto,  ha
 analizzato  tutta  la documentazione teste' elencata ed ha discusso a
 lungo anche le risposte formulate dal  collegio  peritale  che,  alla
 lettera  F della relazione, ha testualmente concluso "La malattia non
 si deve  ritenere  incompatibile  col  regime  carcerario  detentivo,
 purche'  siano  osservate le condizioni esposte nella discussione del
 caso".
    Orbene il tribunale ha disatteso il giudizio espresso  dai  periti
 ed ha concesso a Rotundo il differimento della pena per mesi dodici.
    L'ordinanza  relativa,  ampiamente  motivata  su  questo punto, ha
 espresso le valutazioni di ordine medico legale che hanno ispirato la
 decisione di disattendere, sia pur in parte, il giudizio del collegio
 peritale.
    In  detta  ordinanza,  preso  atto  che  la  malattia   grave   ed
 irreversibile  comporta  per  il  soggetto  un  carico  di sofferenza
 quotidiana elevato e' stato riconosciuto a Rotundo  il  diritto  alla
 sospensione della pena.
    In  tal  modo,  il  tribunale,  esercitando  la  sua  funzione  di
 interprete  della  legge  ha  risolto,  con  ordinanza  motivata,  il
 conflitto  tra  il  potere  dello Stato di esigere che la sentenza di
 condanna a pena detentiva  emessa  nei  confronti  di  Rotundo  fosse
 eseguita,  ed  il  diritto  di  costui, affetto da malattia grave, di
 chiedere la sospensione della pena, tutto  cio'  nel  pieno  rispetto
 degli artt. 3 e 111 della Costituzione.
    Altrettanto   irragionevole   e  discriminante  appare  la  citata
 normativa rispetto agli ammalati "comuni" con particolari riferimenti
 anche all'art. 111 della Costituzione.
    Nelle due vicende giudiziarie teste' illustrate appare palese  che
 nella   vicenda   Bruschi   e'   del  tutto  vanificata  la  funzione
 giurisdizionale della magistratura di sorveglianza nell'esercizio del
 suo compito istituzionale di dirimere il  conflitto  tra  il  diritto
 dello  Stato  ad  eseguire  le  sentenze di condanna a pene detentive
 emesse nei confronti di Bruschi ed il suo  diritto  alla  sospensione
 della pena.
    Questo  conflitto e' stato preventivamente risolto dal legislatore
 con le  citate  norme:  il  tribunale  deve  limitarsi  a  dichiarare
 l'incompatibilita' tra lo stato detentivo e la malattia diagnosticata
 a Bruschi dal primario dell'ospedale Sant'Andrea di Vercelli.
    Nella  vicenza  Rotundo  il potere interpretativo del tribunale di
 sorveglianza si e' sviluppato al piu' alto grado di  professionalita'
 ed in piena consonanza con l'art. 111 della Costituzione.
    Il  nuovo  orientamento  normativo non puo' dirsi piu' aderente al
 dato costituzionale neppure sotto il profilo del rispetto degli artt.
 27, terzo comma e 32, primo comma, poiche' l'esito  della  esperienza
 medico-scientifica in materia rivela come l'infezione da HIV presenti
 caratteri  di  estrema  dinamicita'  e  varieta'  di  situazioni,  in
 rapporto alle quali va concretamente provato che l'applicazione della
 pena leda il fondamentale diritto alla salute  o  si  risolva  in  un
 trattamento  contrario al senso di umanita' (prescindendo dai casi in
 cui la cessazione delle cure e della assistenza  comunque  assicurate
 dalle strutture carcerarie si tradurra' in danno di quei soggetti che
 si vogliono invece favorire).
    Con ben diversa puntualita' la problematica sovraesposta era stata
 recepita  nella  circolare  n.  3370/5770  del  Ministero di grazia e
 giustizia del 25 luglio 1991 sopra ricordata  -  avente  appunto  per
 oggetto "I detenuti affetti da sindrome da HIV", dove dato atto della
 notevole   variabilita'   ed  incostanza  del  quadro  clinico  delle
 infezioni da HIV, si rimandava al giudizio degli  organi  competenti,
 investiti  dal  "difficile  compito di valutare, nei singoli casi, la
 sussistenza delle condizioni che consentono il permanere del soggetto
 in ambiente carcerario o che ne consigliano il  trasferimento  presso
 il domicilio o in una struttura esterna".
    Pertanto la invocata disciplina del rinvio obbligatorio della pena
 per  gli  affetti  da  HIV  e/o  AIDS  conclamata - come modificata a
 seguito dell'entrata in vigore del d.l. 12 novembre 1992, n.  431  -
 appare inficiata dal vizio di illegittimita' costituzionale;